sabato, gennaio 13, 2007

Il prezzo durissimo della flessibilità

Solo i comunicatori e pochi altri dovrebbero avere contratti flessibili.

Non voglio parlare di persone sottopagate, sfruttate, prese in giro etc. Non mi interessa. O meglio, ho sempre pensato che chiedere è lecito, rispondere è cortesia. Qualunque datore di lavoro è libero di offrire il prezzo che vuole, qualunque lavoratore di ridergli in faccia.

Odio chi sta 5\8 anni all’università e poi, d’un tratto, scopre la fretta di iniziare a lavorare (ful time a 800 E lordi, cioè in perdita). Odio queste persone perché rovinano il mercato del lavoro e, intendiamoci, io sono ancora tra i “senza fisso lavoro”.

Non è concorrenza, è una guerra tra poveri. Stavolta la teoria della mano invisibile (facendo il proprio interesse si fa anche quello della comunità) sbaglia. Anzi, no. Perché lavorare in perdita non è fare il proprio bene. Mi rimangio tutto. È solo questione di immagine, chi ha veramente bisogno di lavorare, per quella cifra, va a fare le pulizie o in un cantiere. Si lavora meno, pagati di più, e con meno preoccupazioni. Ma per le apparenze è meglio di no, vero? Allora niente lamentele.

Sfoghi a parte, il prezzo più alto della flessibilità lo pagheremo, giustamente, noi comunicatori. Solo i comunicatori e pochi altri dovrebbero avere contratti flessibili. Perché?
Pagheremo, stiamo pagando, caro questa abitudine alla disaffezione verso la stabilità. I primi a pagare saranno proprio le grandi marche che della flessibilità hanno fatto vanto. Con questo tipo di flessibilità stanno allevando generazioni di mercenari. Sempre più attenti al costo che alla qualità. Sempre più orientati a rapporti fugaci e discontinui. Stanno perdendo ciò che hanno costruito col tempo e a fatica. L’Immagine e la fedeltà alla marca.
Perché una persona abituata alla flessibilità (infedeltà) in tutto, dovrebbe essere inflessibile (fedele) solo nei consumi?

Brutta storia, davvero.
Nekuia

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